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-elogio del principe-

In Uncategorized on ottobre 21, 2010 at 9:24 am

«L’uomo che guarda il cielo dall’alto». Come ogni buon tifoso rossonero certamente saprà, questo epiteto celeste venne coniato dal buon Carlo Pellegatti in onore dell’indimenticabile Franco Baresi. Ultimo vero interprete del ruolo del libero, condottiero silenzioso, padrone della retroguardia, invalicabile ed elegante, Franco giocava sempre a testa alta, anche nelle sue non così rare sortite offensive a superare la trequarti. Era il Capitano. Era «l’uomo che guarda il cielo dell’alto». Mai metafora dell’ippofilo – e silviofilo – giornalista di Mediaset (altresì noto per i suoi pomeriggi alle corse dei cavalli), colpì così vicino al bersaglio.

Sì, c’era «il cormorano dalle ali di cashmere» (Patrick Kluivert) e pure «lo scorpione bianco» (John Dahl Tomasson); c’era «Milano veste moda» Zorro Boban e Mauro Tassotti, «ragazzo d’Ipanema», mentre «la giraffa d’Ebano» era un giovanissimo Patrick Vieira. E ancora, «profumo di asado» Chamot; «lo skipper» Stefano Eranio; e Angelo Colombo, nelle vesti dell’«ispettore Callaghan: il caso centrocampo è tuo». Spuntò addirittura un «Sentenza» (come il «cattivo» Van Cleef di Sergio Leone) per l’eroe di un derby tanto inutile quanto epico, Gianni Comandini. Ma Franco Baresi, «l’uomo che guarda il cielo dall’alto», resta un’intuizione impareggiabile.

Tuttavia, un altro giocatore ispirò l’animo del Pellegatti. «Cogito ergo sum», signore e signori, Fernando Redondo. Scomodare Franco Baresi è cosa rara e giusta, perciò va fatto solo in casi straordinari. E infatti nulla di ordinario aveva Fernando Carlos Redondo Neri, il Principe di Madrid. Anche lui un fuoriclasse, anche lui sempre a testa alta. Ma il maltrattamento da lui subito sulle pagine di questo blog gridava vendetta (e un pezzo riparatore), con l’autore del taconazo de Old Trafford tacciato di flop alla stregua degli Julio Cesar, degli Josè Mari e degli Javi Moreno qualsiasi e di altri signor nessuno di cui, francamente, è difficile pure ricordare se e come giocassero.

Ioko Poko si chiamava la riserva giapponese, Ioko Mai il suo ancor più nipponico sostituto. In effetti Redondo giocò poco, ma delle sue sole 15 presenze in ben quattro anni di Milan, chi ama il calcio giuocato si ricorda assai bene, come un raggio di sole tra le nubi o, meglio, come l’unica ragione per andare a vedere la Coppa Italia a San Siro, l’anno della vittoria di Manchester (oltre naturalmente che per insultare Christian Brocchi a suon di «sei un saccottino» specificando «non quello del Mulino Bianco», bensì quello tarocco). Bei tempi.

L’argentino di Baires era di un’altra pasta, diversa da tutti gli altri. E confonderlo è quindi l’ottavo peccato capitale: l’indistinzione. All’apice della carriera, il divin Fernando volle fortemente volle venire a giocare nel Milan. Quando i soldi in via Turati si spendevano ancora, le magicien venne strappato al Real Madrid per 35 miliardi di lire. Era il botto della campagna acquisti rossonera nell’anno domini 2000/2001. Tuttavia un improvvido infortunio, simile a quello di Marco Van Basten, privò gli occhi avidi dei tifosi di un nobile godimento.

A chi lo ha visto giocare, poco serve ricordarne il talento, l’intelligenza sopraffina, la laurea in Economia (con la leggenda che parla di un secondo diploma in Lettere e filosofia), la rinuncia a stipendio, casa e auto dopo l’infortunio e i due storici rifiuti di giocare i Mondiali con l’Argentina: il primo nel 1990 per privilegiare lo studio (e per dissapori squisitamente tattici di cui il nostro già discuteva con Bilardo a 21 anni) e il secondo pur di non tagliarsi i capelli come da ordine di Daniel Passarella (cosa che poi regolarmente fece poche settimane dopo). Perché «chi lo conosce lo sa», come diceva Alberto Tomba. E lo ricorda come un vero cartesio della mediana, dotato di piedi dal tocco delizioso e di una sagacia irriverente. Lento, lentissimo ma per questo ancora più forte. Dotto mancino del cerchio di centrocampo, dal dribbling facile, il fiuto acuto e un’immensa visione di gioco. Proprio per questo è giusto scomodare Franco Baresi dall’Olimpo del pallone. Perché nell’11 titolare dei migliori giocatori di sempre, assieme al Capitano, lui non sfigurerebbe di certo. Lui, l’unico Principe. Altro che Giannini, altro che Milito.

E allora difendiamo la memoria del bambino diventato ribelle e poi guerriero e poi principe e poi filosofo. Perché la monnezza che oggi esce dalle bocche della losca dirigenza rossonera non porti la rabbia dei tifosi ingannati a infangare anche il suo nome. «Cogito ergo sum», vero genio del futebol con il «magnete nel piede» (copyright: Sir Alex Ferguson). E agli interisti che stanno ridendo a crepapelle compiangendo i cugini persi in così futili nostalgie, va chiesto di tacere umili, se ci riescono, innanzi a cotanta qualità, la stessa che da troppo tempo, nonostante le vittorie, manca sulla loro grigia, squallida sponda del naviglio. Se ci fosse la Fossa si potrebbe cantare (cit.). Ai tempi di Redondo c’era. E per lui non si lesinava.

Giacomo Valtolina

-capolavori: ad vitam-

In Cinema on ottobre 10, 2010 at 11:13 PM

Immortal ad vitam. Questa apparente bestemmia filologica è in realtà un titolo cinematografico ingannatore. Come l’orrido baco che a un certo punto si tramuta in farfalla. Ma, se questo film deve proprio essere qualcosa, allora meglio un’aquila o, chissà, forse un drago.

Lo so, la pellicola è del 2004, e io arrivo un po’ tardi. Ma, mai come in questo caso, l’attesa ha soltanto rimandato un piacere da raggiungere. Come quelle cose che si fanno inseguire e cercare e, poi, quando appaiono all’improvviso, ti seducono e infine conquistano.

Per farla breve, qualcuno dice che è il più bel film di fantascienza della storia.
Non ce ne vogliano i capolavori del genere, Blade Runner in testa, ma questa affermazione è meno peregrina di quel che sembra. In Immortal c’è tutto.

Qui la paranoia psiconauta di Philip Dick incontra la tragedia greca e i miti fondanti delle religioni. Nel suo originale pellegrinaggio, il film sventola cliché esistenzialisti dall’epica al cyberpunk, dalla poesia al fumetto. E, fatta eccezione per qualche dialogo deboluccio, la trama è intensa, assieme antichissima e misteriosa. Un misto postmoderno di animazione e cinema “vero”, costato una sciocchezza come 22 milioni di euro. La mente è quel pazzo francoslavo di Enki Bilal, illustratore e scenografo teatrale che nel cinema ci è entrato dalla porta principale, con Alain Resnais e altre illustri conoscenze.

In totale un’ora e mezza di pura evasione, tra i vapori soffusi di un mondo artificiale, talvolta glorioso, spesso cupo, sempre sfuggente. Unica controindicazione: dopo l’evasione, come sempre, si torna in gabbia. Ma la realtà si svela meglio così che con qualsiasi realismo spicciolo televisivo.

-mentina-

In Cronaca on ottobre 9, 2010 at 6:44 PM

Vita dura anche a La7 per il baldo esule neopaladino della libertà, Enrico Mentana. In collegamento dal suo nuovo personalizzato tiggì con il programma di approfondimento In Onda di Luca Telese e Luisella Costamagna, il nostro (o vostro o, insomma, fate vobis), come da usanza chiede anticipazioni. Una volta lo faceva con la Marcuzzi e il grandefratello, ma tant’è.

C’è Sallusti (in una “mise da galeotto”, dice Mentana, causa giacca lucida, dolcevita nero e barba lunga); c’è Concita De Gregorio (già assai indispettita, o meglio inFeltrita); e c’è il segugio (o “cane da riporto”) Stefano Zurlo. Luca Telese annuncia una puntata scoppiettante sulle inchieste pseudofarlocche del Giornale. Informazione o dossieraggio? Siamo già tutti orecchie…

Ma nell’ansia da prestazione e da primodonnismo, il caricaturale Telese si lancia ardito in una battuta: “Anche stasera avremo i nostri sondaggi. E te ne possiamo anticipare uno, Enrico, anche se li abbiamo pagati noi e non il tuo telegiornale…”. Mentana, tra l’incredulo e lo stizzito, dopo un attimo di silenzio, gli risponde acido di no e taglia il collegamento: “Voglio farvi risparmiare” sentenzia lanciando la pubblicità.

Ma il visino è triste e contrito. Come se non bastasse lo sfondo del nuovo studio, che fa tanto bulgaria primi anni Ottanta, a dare già un che di povero al Mentina versione tre (o quattro) punto zero. Dura la vita, anche qui, Enrico? O lo è per Telese?